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Giovedì, 7 Dicembre 2023
la testimonianza / Erto e Casso

«Il boato dal Vajont, poi il silenzio e le urla. Ho perso nove persone»

Il racconto di Grazia Filippin, 12enne di Erto quella sera del 9 ottobre 1963

«Ero nel letto con i miei genitori. All'improvviso abbiamo sentito un boato tremendo. Mia mamma si è alzata, ha aperto la finestra e le è arrivata l'acqua addosso: ha subito detto "mia sorella è morta"». 
Aveva 12 anni Grazia Filippin, ed era una ragazzina di Erto. La sua famiglia si è salvata perché la casa dove abitavano si trovava in alto rispetto al lago del Vajont, ma tra zii e cugini ha perso nove persone. 

Il ricordo della sera del 9 ottobre 1963 è ancora chiaro, troppo chiaro, anche 60 anni dopo. Una tragedia annunciata e percepita dalla popolazione. «Ricordo le donne del paese che nei giorni precedenti il disastro, quando si incontravano dicevano "lo senti il Toc che "sgorla"?». Era come se ci fossero delle scosse di terremoto e le autorità avevano messo un avviso con scritto di non avvicinarsi al lago, perché c'era il pericolo di qualche piccola frana». 
Poi però arrivò una frana, ma non piccola: 270 milioni di metri cubi di roccia che si sono staccati alle 22:39. 

Grazia Filippin alle scuole elementari di Erto-2

«Dopo il boato è calato un silenzio di tomba, non c'era più nessun rumore. Poi abbiamo iniziato a vedere gli ertani che salivano verso di noi e dal buio si sentivano le urla disperate di chi chiedeva aiuto. Non avevamo l'energia elettrica, e fuori dalla sua casa, poco distante dalla nostra, c'era mia zia Maria con la candela in mano, ormai già cosciente di aver perso il figlio». Un trauma per una 12enne, che si è protratto negli anni: «per moltissimo tempo mi sono svegliata urlando di notte», racconta Grazia Filippin. 

Il giorno dopo e la conta dei morti

Dopo lo spavento della notte, l'entità del disastro è diventata reale. Il 10 ottobre il lago del Vajont era diventato un luogo dell'orrore. «Alla radio abbiamo sentito che Longarone non c'era più. Siamo andati a vedere il lago dall'alto. Prima aveva un bel colore verde smeraldo, ma era diventato un disastro. L'acqua era marrone, e galleggiavano cuscini, tavoli e oggetti di ogni tipo. Le case intorno erano sparite». 
E sono diventate reali anche i peggiori pensieri sui parenti. «Mia zia Giacoma - racconta Grazia - abitava vicino al lago con il marito e cinque miei cugini. Sono morti tutti. Mio zio Giuseppe invece era andato a trovare la fidanzata che abitava a Pirago (Longarone), e sono morti entrambi. Dello zio non è mai stato trovato il corpo, è stata recuperata nel fango solo la carta di identità. E anche mia zia Maria, purtroppo aveva ragione: suo figlio Costantino lavorava in Germania, quella sera stava tornando a Erto in automobile. È morto anche lui. Probabilmente era in macchina quando è arrivata l'onda». 

L'esodo

Nei giorni successivi i carabinieri hanno sgomberato le case e portato la famiglia Filippin alla colonia di Cimolais. «Era una situazione straziante: gli emigranti tornavano in valle e cercavano i parenti dispersi, senza trovarli. Mio padre aveva deciso di tornare a casa, cosa che abbiamo fatto quando sono tornati i miei fratelli, anche loro emigranti in Svizzera. Nel giro di poco tempo sono arrivati i carabinieri a portarci via con la forza perché a Erto non si poteva stare e basta, senza un motivo preciso. Abbiamo poi trovato una casa a Cellino, dove ho lavorato nella locanda, e poi nel 1966 siamo scesi a Pordenone. Cellino non era casa nostra, non era Erto, tanto valeva cambiare. Per mio padre è stata molto dura dover lasciare il suo paese»

La nuova vita di Grazia è poi ricominciata nel capoluogo: conosciuta da molti, ha lavorato fino al 2007 nel panificio Tomadini di via Montereale. Il rapporto con i parenti resta solido, così come il rapporto con la terra natia, dove torna regolarmente. La prossima visita a Erto sarà per portare un cero e una preghiera per chi se n'è andato quella sera di ottobre di sessant'anni fa. 

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